giovedì 16 marzo 2017

DUE MUSICI… E MEZZO di Paolo Secondini


 
In ricordo di Donato Di Brango e Gino De Cesare

Decidemmo, Gino, Donato e io, di far musica insieme, così, tanto per passare il tempo e per coltivare una passione che in loro, sicuramente, era più grande della mia. La bravura di Gino e Donato, rispettivamente alla chitarra classica e al pianoforte, era a tutti ben nota in paese, e non solo.
Mi unii a loro con uno strumento, il flauto traverso, che mai avevo suonato in vita mia e che, a malapena, sapevo cos’era, com’era fatto. Mi fu consigliato dagli stessi Gino e Donato, i quali mi dissero che, se mi fossi applicato costantemente, sarei in breve riuscito a cavarne qualcosa. E infatti, dopo pochissimo tempo di esercitazione, ero in grado di strimpellarlo, dando voce finanche a qualche motivetto.
Ma con Gino e Donato il motivetto doveva essere serio, classico per l’esattezza.
Si cominciò con un brano, non complicato (per me, s’intende), di musica antica: precisamente del liutista irlandese (o inglese) John Dowland, proposto da Gino, che al brano aveva magistralmente aggiunto, mancandovi, la parte del pianoforte e del flauto.
«Facile, mi raccomando!» gli avevo detto. «Altrimenti mi perdo.»
«Non dubitare,» mi aveva risposto, con quel dolce sorriso che gli conoscevo. «In ogni caso… solmisazione, solmisazione, solmisazione… e non potrai sbagliare.»
Già! Solmisazione… Ma che diavolo era?
Mi guardai bene dal domandarlo.
Donato, per quanto avesse le sue preferenze in fatto di musica (amava segnatamente quella romantica: Beethoven, Chopin, Brahms, al contrario di Gino, che prediligeva quella barocca di Johannes Sebastian Bach), lasciava a Gino, quasi sempre, la facoltà di scegliere i brani, di curarne l’armonizzazione e altro. Gino era, senz’altro, un valente musicista (lo affermo con grande convinzione): unico, eccezionale; mentre Donato era, soprattutto, un ottimo esecutore (e lo dico con ammirazione). Rammento che gli bastava una sola lettura dello spartito per eseguirlo quasi alla perfezione: il che è semplicemente straordinario.
Dei tre, il meno edotto, il meno evoluto musicalmente – il più scarsetto, per dirla con franchezza –, ero io. Non lo nascondevo del resto, lo ammettevo anzi candidamente, sentendomi, verso i due bravissimi amici, nel più grande imbarazzo (mi paragonavo a una macchia d’inchiostro su un pentagramma immacolato: qualcosa, cioè, di veramente fuori luogo).
Pertanto, guardavo a Gino e Donato come a due “fari musicali”, due validi punti di riferimento, senza i quali sarei stato inghiottito, annaspandovi, dal mare agitato delle note.  Ma mi sentivo tranquillo, avendo in loro due salvagenti sicuri e… pazienti, molto pazienti, specie quando (il che accadeva frequentemente) dal mio flauto usciva un’acuta e madornale stonatura.
Seguiva, subito, una risata sdrammatizzante, e si cominciava di nuovo, con passione e tanta pazienza (verso di me, ovviamente).
Ma quante stonature ancora, e quante risate, per mia fortuna!…
Non suono più da moltissimo tempo.
Un giorno, per due eventi assai dolorosi, l’uno poco distante dall’altro, appesi, come suol dirsi, il flauto al chiodo (ancora è lì, ad arrugginirsi miseramente).
Nessun rimpianto di esso, nessuna nostalgia!
Mi conforta sapere che Gino e Donato suonano ancora – insieme e in luoghi più eccelsi e solari di quelli terreni – musiche alte, sublimi… dalle armonie celestiali.

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