lunedì 27 marzo 2017

IL TEMPO DELLE FAVE di Vincenzo Pelagalli



In principio fu, forse, una promessa; un impegno verso un vivo o verso un morto; forse, fu un lascito, un legato che gravava su una certa proprietà o un mezzo per ricordare un caro estinto. Forse, fu tutto ciò messo insieme. Ma ormai era diventata una tradizione, perché l’origine e il significato si son perduti nel corso degli anni.
Quanti anni? Cento, duecento, forse anche più.
Nessuno ha saputo dirmelo. Neanche i Pelagalli che di questa tradizione sono stati gli iniziatori: hanno sempre cotto le fave all’alba del giorno dei morti, perché così hanno visto fare dai loro genitori e dai loro nonni.
Le fave dei Pelagalli sono entrate nelle nostre case e tutti ne abbiamo mangiato. Nessuno si sentiva offeso da quelle scodelle, nessuno si sentiva umiliato, al contrario, restava deluso chi, per un motivo o per un altro, non riusciva ad averle.
Fave e pane rosso per tutti: le stesse fave e lo stesso pane sia per i don sia per gli umili; unica differenza era che questi andavano a prenderle, quelli le ricevevano in casa.
Davanti a quelle fave e a quel pane rosso tutte le porte e tutti i portoni si aprivano; anche quelli che con i Pelagalli potevano avere qualche momentaneo motivo di attrito.
Ricordo la confusione e il baccano che avveniva davanti al cancello del cortile dove si cuocevano le fave, ma ricordo anche il silenzio e la compostezza di tutti, quando il cancello si apriva e si iniziava la distribuzione.
C’era chi le mangiava lì, in un angolo del cortile; ma molti portavano a casa la scodella piena per dividerla con i familiari e per stiparne un po’, per devozione, come si diceva allora, a quei parenti che sarebbero venuti da fuori per l’annuale visita al cimitero.
Quelle fave erano per tutti gli aquinati quasi un rito, una specie di comunione generale che li accomunava, qualcosa che concretizzava una componente della spiritualità della nostra gente.
Ma le fave dei morti non si cuociono più, ormai tutto è finito. E non per colpa dei Pelagalli che ancora, anche se in altro modo, assolvono al loro impegno. Non è nemmeno colpa degli aquinati: tutto è finito perché sono altri tempi.
Altri tempi solo in apparenza più facili di quelli andati, ma in realtà più duri. Più duri perché questa civiltà consumistica, dissacrando ogni cosa e abbattendo ogni mito, consuma financo il suo artefice, non lasciandogli più il tempo di sostare per guardare attorno a sé e, quel che è più grave, dentro di sé.
Noi vorremmo le fave dei morti, per tornare a guardare dentro di noi.

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