In principio fu, forse, una promessa; un impegno
verso un vivo o verso un morto; forse, fu un lascito, un legato che gravava su una certa proprietà o un mezzo
per ricordare un caro estinto. Forse, fu tutto ciò messo insieme. Ma ormai era
diventata una tradizione, perché l’origine e il significato si son perduti nel
corso degli anni.
Quanti anni? Cento, duecento, forse anche più.
Nessuno ha saputo dirmelo. Neanche i Pelagalli
che di questa tradizione sono stati gli iniziatori: hanno sempre cotto le fave
all’alba del giorno dei morti, perché
così hanno visto fare dai loro genitori e dai loro nonni.
Le fave dei Pelagalli sono entrate nelle nostre
case e tutti ne abbiamo mangiato. Nessuno si sentiva offeso da quelle scodelle,
nessuno si sentiva umiliato, al contrario, restava deluso chi, per un motivo o
per un altro, non riusciva ad averle.
Fave e pane rosso per tutti: le stesse fave e lo
stesso pane sia per i don sia per gli
umili; unica differenza era che questi andavano a prenderle, quelli le
ricevevano in casa.
Davanti a quelle fave e a quel pane rosso tutte
le porte e tutti i portoni si
aprivano; anche quelli che con i Pelagalli potevano avere qualche momentaneo
motivo di attrito.
Ricordo la confusione e il baccano che avveniva
davanti al cancello del cortile dove si cuocevano le fave, ma ricordo anche il
silenzio e la compostezza di tutti, quando il cancello si apriva e si iniziava
la distribuzione.
C’era chi le mangiava lì, in un angolo del
cortile; ma molti portavano a casa la scodella piena per dividerla con i
familiari e per stiparne un po’, per devozione, come si diceva allora, a quei
parenti che sarebbero venuti da fuori per l’annuale visita al cimitero.
Quelle fave erano per tutti gli aquinati quasi
un rito, una specie di comunione generale che li accomunava, qualcosa che
concretizzava una componente della spiritualità della nostra gente.
Ma le fave dei morti non si cuociono più, ormai
tutto è finito. E non per colpa dei Pelagalli che ancora, anche se in altro
modo, assolvono al loro impegno. Non è nemmeno colpa degli aquinati: tutto è
finito perché sono altri tempi.
Altri tempi solo in apparenza più facili di
quelli andati, ma in realtà più duri. Più duri perché questa civiltà
consumistica, dissacrando ogni cosa e abbattendo ogni mito, consuma financo il
suo artefice, non lasciandogli più il tempo di sostare per guardare attorno a
sé e, quel che è più grave, dentro di sé.
Noi vorremmo le fave dei morti, per tornare a
guardare dentro di noi.
Nessun commento:
Posta un commento