martedì 25 aprile 2017

IL BUE MUTO di Tommaso Di Brango


Mangiavamo e conversavamo. E per la verità, quando il vino ci pareva particolarmente dolce e la giornata propizia, cantavamo pure canzoni non molto pudiche. Tra noi teneva banco Rolando di Champagne, che si divertiva a raccontarci di tutte le donzelle provenzali a cui aveva spezzato il cuore e costringeva di fatto ognuno di noi a inventare storie altrettanto numerose e inverosimili per non sembrar da meno al suo cospetto. Chissà, poi, se le storie che ci raccontava Rolando erano vere o erano solo favole! Sta di fatto che si era questo: studenti dell’Università di Colonia che, al refettorio, si trasformavano in un branco di vitelli dal gomito alto e dalla fantasia accesa.
Solo Tommaso era diverso. Non che non amasse la nostra compagnia, anzi! Ogni volta che terminavano le lezioni del mattino e ci si recava al refettorio mi si avvicinava a parlare di cose d’ogni giorno e si comportava come colui che, nel cercare un contatto con un suo simile, sta facendo un grande sforzo per vincere la naturale timidezza che abita nell’animo suo. Tuttavia, quando ci si sedeva a tavola e noialtri si iniziava a raccontare delle dolci fanciulle che appresso a noi avevano perso il senno in vite mai vissute o a buttar giù battute oscene, lui si sedeva di fronte al piatto e pareva andare da un’altra parte.
Ricordo bene l’immagine di Tommaso, è come se fosse ancora adesso davanti a me. Era di figura possente, alto come un armadio e con un ventre che pareva quello di un abate benedettino, e tutte le volte che sedeva al tavolo del refettorio appoggiava la voluminosa faccia rotonda alla mano sinistra. Potrei azzardarmi a dire che, in quei momenti, più che mangiare masticava, perché era chiaro come il sole che mentre portava il cibo alla bocca Tommaso stava pensando a tutt’altro e anche noi, che intorno a lui cantavamo, bevevamo e dicevamo corbellerie, non eravamo per lui che lo sfondo su cui si muovevano altre, ben più nobili figure.
Lui, in quei momenti, era in compagnia di Aristotele e Avicenna, e pensava a come l’essere sia atto e non puro e semplice fatto; oppure rifletteva sul mistero dell’Eucarestia e della transustanziazione e si interrogava sull’idea del male come deprivazione del bene proposta da Agostino da Ippona; oppure, ancora, ripensava al modo in cui occorreva interpretare le sentenze di Pietro Lombardo e le parole del Discorso della Montagna. Teneva lo sguardo basso, verso il piatto di minestra: ma il cuore era in questo enorme cielo.
Aveva gli occhi buoni, Tommaso. Chiari ma non azzurri, sembravano quelli di un bove che rumina nei prati e non si fa turbare dal frastuono del mondo, e sovrastavano un naso leggermente arcuato, che visto di profilo pareva il becco di un pappagallo. Tuttavia ricordo bene che, quando interrompeva il suo perenne ruminare per tirar fuori quello che stava lavorando dentro di sé, quegli occhi parevano trasformarsi insieme all’intera sua figura: lo sguardo diventava quello di un’aquila e la favella correva veloce come le rapide di un fiume mentre sulle labbra si disegnava frequentemente un sorriso, quasi che Tommaso provasse una interiore felicità nel ragionare con gli altri di ciò che fino ad allora aveva tenuto dentro di sé.
Ma questi erano momenti. Per la maggior parte del tempo quel ragazzo venuto dalle terre di Federico II se ne stava mite e taciturno, tanto che noialtri sciagurati avemmo la pessima idea di definirlo “il bue muto”. Oggi però posso dire che ebbe ragione il magister Alberto di Colonia quando, appreso di quello stupido appellativo, ci disse che il muggito di quel bue, un giorno, si sarebbe fatto sentire da un capo all’altro della Terra, mentre dei nostri schiamazzi si sarebbe avuta notizia solo perché avvenuti alla presenza di quel gigantesco ruminante.

Nessun commento:

Posta un commento