mercoledì 5 luglio 2017

SAN TOMMASO ALLA CORTE DI LUIGI IX di Tommaso di Brango

L’ambasciatore dei veneziani faceva un rumore d’inferno. Affondava debolmente il cucchiaio di legno nel piatto di minestra e, dopo averlo portato alla bocca, iniziava a succhiare l’acqua calda come se dovesse assaggiare un chicco per volta. Sembrava il cigolio che fanno le ruote dei carri quando non vengono cambiate per troppo tempo.
Il principe ereditario lo guardava con un certo disgusto e si rivolgeva al padre parlandogli all’orecchio e mettendo le mani davanti alla bocca. Nessuno di noi seppe mai cosa gli stesse dicendo, ma il fatto che il Re rispondesse stringendo le spalle e abbassando leggermente il mento verso destra ci fa capire che, con tutta probabilità, non si doveva trattare di giudizi lusinghieri. Alla sua sinistra c’erano il rettore dell’Università di Parigi e alcuni professori che parlottavano tra loro, forse per coprire il suono prodotto dall’ambasciatore.
Gettai uno sguardo alle mura della stanza e pensai che mi aspettavo maggior sfarzo nella dimora del Re di Francia. Certo, ci trovavamo in un castello: ma qualche ornamento alle finestre avrebbe pure potuto mettercelo Re Luigi! E anche il tavolo poteva non essere semplicemente un lungo pezzo di legno con un panno disteso sopra!
D’un tratto la porta del salone si aprì ed entrarono le maestranze per portare il secondo piatto. Non sapevano che l’ambasciatore doveva ancora finire di degustare i chicchi della minestra. Prima che chiunque tra loro potesse parlare, però, si udì un tonfo all’interno della stanza.
Il tutto durò un solo istante, ma nella mia memoria appare dilatato, come se il tempo si fosse improvvisamente bloccato. Fu un rumore netto, come un bove che cade su un asse di legno e lo travolge. L’ambasciatore si sporcò con la minestra, il Re e suo figlio rivolsero lo sguardo alla loro destra, il rettore e i professori parvero aver accumulato in faccia tutto il sangue che avevano in corpo.
«È chiaro! Ma che dico: è chiarissimo!» fece frate Tommaso con il pugno ancora sul tavolo e incurante dello sguardo altrui. Poi si voltò verso sinistra e, rendendosi conto dell’accaduto, serrò le labbra e abbassò lo sguardo. Il rettore, che lo guardava carico d’odio e imbarazzo, si rivolse al Re con le sopracciglia appena inarcate, come chi sta per chiedere scusa.
Luigi IX però era uomo di grande intelligenza e santità e lo fermò toccandogli l’avambraccio con la mano destra. Dopodiché si alzò e, sotto lo sguardo interrogativo di tutti, andò a sedersi accanto a Tommaso che rimaneva con gli occhi fissi al piatto di minestra.
«Ditemi, su cosa riflettevate?»
«Sulla dottrina manichea Sire. Forse ho trovato il modo di confutarla e mi sono fatto prendere dall’entusiasmo. Perdonatemi.»
Il Re fece un sorriso con la parte destra della bocca. «Perdonatemi voi, Tommaso, se non vi ho messo a disposizione un ambiente adeguatamente silenzioso e accogliente. Comunque ditemi: in cosa cede la dottrina manichea a vostro avviso?».
Trascorsero il resto della serata a discorrere di simili questioni.

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