Nel XIII secolo, ad Aquino, nel sontuoso palazzo
comitale, situato entro le mura del castello, doveva condursi un’esistenza piacevole,
dal momento che i conti d’Aquino costituivano una famiglia ricca e potente che,
probabilmente, non disdegnava agi né lusso, simboli anch’essi di magnificenza.
C’è da supporre pertanto che nel suddetto
palazzo, quando la mente del signore era sgombra da assilli dovuti a questioni
economiche, giuridiche, amministrative o a seri problemi militari, i giorni si
susseguissero in modo assai lieto.
Spesso la nobiltà si dava convegno alle feste
che il castellano organizzava, con magnanimità, per ricorrenze speciali o in
occasione di matrimoni, nascite e battesimi; feste che si svolgevano
solitamente in ampie sale, alle cui pareti pendevano arazzi e tende di seta o
di velluto.
Quelle feste erano caratterizzate da danze al
suono di flauti, ghironde, vielle, tamburi, come anche da lauti banchetti allietati,
quest’ultimi, dai lazzi di buffoni, dai giochi di acrobati e prestigiatori.
In questa atmosfera di spensierata allegria, gli
occhi dei cavalieri erano attratti dalla sublime bellezza delle dame, splendide
nei loro vestiti intessuti di fili d’oro e d’argento, tempestati di rubini e, talvolta,
guarniti con pellicce di lontra o di ermellino.
Di carnagione bianchissima, ottenuta mediante
una mistura di biacca, miele e polvere di piombo (che a lungo andare, però,
deturpava irrimediabilmente la pelle), le dame avevano lunghi capelli raccolti
sulla nuca o in crocchia sul capo e avvolti in veli o in reti colorate; la
fronte adorna di un ricco diadema e il collo cinto di una collana di perle o di
smeraldi.
Per far breccia nel
cuore della dama, il cavaliere metteva in atto studiati stratagemmi, come
quello di umiliarsi, genuflettersi, giurare fedeltà assoluta, offrire con
spirito d’abnegazione i propri servigi, la propria vita, dichiararsi, oltreché
servitore, prigioniero di lei. Se la dama cedeva alle lusinghe del suo corteggiatore
ne diventava, a sua volta, prigioniera, dando inizio così a un vero e proprio rapporto
di vassallaggio (lo stesso che, in sostanza,
esisteva tra feudatario e signore), che la impegnava a rendere al cavaliere
tutto ciò che da lui riceveva: erano queste le norme galanti, inderogabili
dell’amor cortese.
Per le dame i menestrelli, con indosso cappello
– spesso piumato – e indumenti sgargianti, intonavano dolci canzoni melodiche,
accompagnandosi con il salterio o il liuto; per esse i trovatori declamavano
sonetti e madrigali traboccanti d’amore.
Ci piace immaginare che anche il fratello di
Tommaso d’Aquino, Rinaldo (ammesso si tratti, come parrebbe, dello stesso
Rinaldo d’Aquino che fu falconiere e poeta alla corte di Federico II), in
visita o soggiornando per qualche tempo nel palazzo comitale aquinate, vi abbia
recitato con enfasi i propri versi che, pervasi in assoluto di una soave bellezza,
suscitarono ammirazione in Dante Alighieri.
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