martedì 23 maggio 2017

VITA IPOTETICA NEL PALAZZO COMITALE DI AQUINO di Paolo Secondini

Nel XIII secolo, ad Aquino, nel sontuoso palazzo comitale, situato entro le mura del castello, doveva condursi un’esistenza piacevole, dal momento che i conti d’Aquino costituivano una famiglia ricca e potente che, probabilmente, non disdegnava agi né lusso, simboli anch’essi di magnificenza.
C’è da supporre pertanto che nel suddetto palazzo, quando la mente del signore era sgombra da assilli dovuti a questioni economiche, giuridiche, amministrative o a seri problemi militari, i giorni si susseguissero in modo assai lieto.  
Spesso la nobiltà si dava convegno alle feste che il castellano organizzava, con magnanimità, per ricorrenze speciali o in occasione di matrimoni, nascite e battesimi; feste che si svolgevano solitamente in ampie sale, alle cui pareti pendevano arazzi e tende di seta o di velluto.
Quelle feste erano caratterizzate da danze al suono di flauti, ghironde, vielle, tamburi, come anche da lauti banchetti allietati, quest’ultimi, dai lazzi di buffoni, dai giochi di acrobati e prestigiatori.
In questa atmosfera di spensierata allegria, gli occhi dei cavalieri erano attratti dalla sublime bellezza delle dame, splendide nei loro vestiti intessuti di fili d’oro e d’argento, tempestati di rubini e, talvolta, guarniti con pellicce di lontra o di ermellino.
Di carnagione bianchissima, ottenuta mediante una mistura di biacca, miele e polvere di piombo (che a lungo andare, però, deturpava irrimediabilmente la pelle), le dame avevano lunghi capelli raccolti sulla nuca o in crocchia sul capo e avvolti in veli o in reti colorate; la fronte adorna di un ricco diadema e il collo cinto di una collana di perle o di smeraldi.
Per far breccia nel cuore della dama, il cavaliere metteva in atto studiati stratagemmi, come quello di umiliarsi, genuflettersi, giurare fedeltà assoluta, offrire con spirito d’abnegazione i propri servigi, la propria vita, dichiararsi, oltreché servitore, prigioniero di lei. Se la dama cedeva alle lusinghe del suo corteggiatore ne diventava, a sua volta, prigioniera, dando inizio così a un vero e proprio rapporto di vassallaggio (lo stesso che, in sostanza, esisteva tra feudatario e signore), che la impegnava a rendere al cavaliere tutto ciò che da lui riceveva: erano queste le norme galanti, inderogabili dell’amor cortese.
Per le dame i menestrelli, con indosso cappello – spesso piumato – e indumenti sgargianti, intonavano dolci canzoni melodiche, accompagnandosi con il salterio o il liuto; per esse i trovatori declamavano sonetti e madrigali traboccanti d’amore.
Ci piace immaginare che anche il fratello di Tommaso d’Aquino, Rinaldo (ammesso si tratti, come parrebbe, dello stesso Rinaldo d’Aquino che fu falconiere e poeta alla corte di Federico II), in visita o soggiornando per qualche tempo nel palazzo comitale aquinate, vi abbia recitato con enfasi i propri versi che, pervasi in assoluto di una soave bellezza, suscitarono ammirazione in Dante Alighieri.

Nessun commento:

Posta un commento