venerdì 26 maggio 2017

5 LIRE di Peppe Murro

 
Era il tempo in cui Berta filava, o giù di lì: Aquino finiva “agli stracciun” e “le pentime” era un luogo proibito.
C’eravamo solo noi, soprattutto “quelli delle case popolari” e “quelli della piazza”, figli del dopoguerra e della fatica di ricostruire. Torme di ragazzini urlanti, padroni del paese, che si scontravano e se le davano, giocando a “indiani e cowboys”, quasi in un’edizione paesana de “i ragazzi della via Paal”.
Scoprivamo piano il paese, come un’angusta prigione, fra il campo sportivo in terra rossa, dove Giggione era sempre pronto a urlare se ci si nascondeva tra le spighe di grano, e lo scivolo della calce idrata, che ti faceva provare l’ebrezza del proibito e della velocità quando si saltava da un muretto su pezzi improvvisati di cartone scivolando giù per il pendio, giocandosi il cartone e spesso anche il fondo dei pantaloni.
Ma il nostro vero regno era la piazza; e prima che don Pasquale ci sorprendesse tutti col suo alzarsi la tonaca e mettersi a giocare a pallone con noi sullo spiazzo della chiesa, accanto al monumento ai caduti con la sua memorie di ruggine della guerra, incagliata su quattro resti di bombe, il nostro gioco era il “giro di Francia”, gare interminabili fatte sui gradini della chiesa spingendo dei tappi di birra o di gassosa, i testareglie, con tiri prolungati facendoli con destrezza saltare da un gradino all’altro sino all’arrivo.
Il vero gioco, però, erano le interminabili e accanite partite di calcio giocate sulle panchine di marmo dove qualcuno aveva segnato, con matite o gesso trafugato a scuola, un vero campo di calcio, con tanto di porta, centro ed area di rigore: si trattava di fare goal lanciando con destrezza un testareglie nella porta avversaria.
Inutile dire delle lunghe contestazioni quando cadeva di lato ed era fallo laterale o qualcuno barava spostandosi in una migliore posizione: si litigava per un goal non assegnato o una punizione non data, si lanciavano i tappi sapientemente sagomati dal centro alla porta avversaria o tentando talvolta tiri arditi da porta a porta che quasi immancabilmente facevano volare i tappi giù dalla panchina; e alle rimesse in campo erano altre litigate. Ed alla fine era quasi sempre la “Juve” a vincere.
Quel giorno fu speciale.
Io e diversi altri sconfitti assistevamo, spettatori e controllori al tempo stesso, alla finale del “campionato del mondo” fra Umberto Bebbè e Giampaolo Schizzett. Era una partita tanto importante che c’erano tutti, quelli delle Crucela, quelli della Piazza e di Via della libertà, persino quelli delle Pentime: vinceva chi arrivava primo a fare 6 goal, chissà perché… e si era su un importante 5 a 4.
 Bebbè si preparava a tirare da un provvidenziale fallo laterale nella metà campo di Schizzett: se segnava aveva vinto.
Si fece silenzio, Bebbè preparò il dito indice per il tiro, guardò bene la porta avversaria e “Scusate, se vi interrompo, c’è tra voi ragazzi qualcuno che vuole aiutarmi a portare a casa le valigie?” Era un carabiniere grande e grosso, con la fronte sudaticcia sotto la visiera e tutto abbottonato nella divisa. “Se qualcuno mi aiuta gli do 5 lire”.
5 lire… non bastavano neppure per un gelato piccolo: facemmo finta di non sentire, tutti a testa bassa, fintamente interessati alla partita. “Allora? Non c’è nessuno?” ripeté sudato il carabiniere.
Vengo io” si sentì da un angolo.
Chissà perché ci girammo tutti, Bebbè si alzò dritto e quasi si mise a ridere: aveva parlato Peppin Gliu mup, un ragazzo delle pentime, tanto minuto e mingherlino che a spingerlo volava via e che prendevamo sempre in giro dicendogli “te si misse le pret ‘nsaccoccia?
Vengo io” e si avvicinò al carabiniere.
Quello lo guardò e, soppesandolo, gli indicò una valigia visibilmente più piccola di altre. “Va bene, porta quella”.
Non so perché stavamo tutti a guardare, forse per vedere come andava a finire, magari pronti all’immancabile sfottò.
Il milite si caricò una valigia per mano e una borsa sotto le ascelle e disse: ”Andiamo
Vedemmo Gliu mup afferrare la maniglia della valigia con una mano, poi con tutt’e due, stringendo i denti per sollevarla.
Provò una volta, due: la valigia sembrava incollata per terra. Provò pure ad abbracciarla, ma niente, la valigia non si muoveva. Qualcuno di noi ridacchiava sommessamente.
Il carabiniere si voltò, guardò Peppino che lo guardava smarrito; poi guardò noi: “Va bene, fa niente, le 5 lire te le do lo stesso”. Mise la mano in tasca, gli consegnò la moneta e con un movimento da ginnasta riuscì a mettersi la valigia sotto l’ascella libera. Lo vedemmo allontanarsi sbuffando un po’ sotto il sole di quel luglio arroventato.
Molti occhi erano fissi su Peppino Gliu mup, lo vedevamo stringere in mano quella moneta con un’espressione indescrivibile che allora non capimmo. Qualcuno già si preparava a prenderlo in giro… “neppure un gelato da dieci ci usciva, al massimo una girella di liquirizia”.
Finché il più feroce tra noi, o forse il più disincantato, sbottò con un “nèh, e che ce fai mo’ cu tutt ‘sti sold?
Serio, serrando sulla mano quel tesoro, “glie port a mama, ca ce fa la spesa” rispose Peppino Gliu mup. E andò via verso le Pentime
Per la sorpresa, forse, o per un inaspettato senso di colpa, a nessuno di noi interessò più la finale del campionato.
La partita la ripetemmo il giorno dopo.
Vinse Schizzett.  

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