Era il
tempo in cui Berta filava, o giù di lì: Aquino finiva “agli stracciun” e “le pentime”
era un luogo proibito.
C’eravamo solo noi, soprattutto “quelli delle case
popolari” e “quelli della piazza”, figli del dopoguerra e della fatica di
ricostruire. Torme di ragazzini urlanti, padroni del paese, che si scontravano
e se le davano, giocando a “indiani e cowboys”, quasi in un’edizione paesana de
“i ragazzi della via Paal”.
Scoprivamo piano il paese, come un’angusta
prigione, fra il campo sportivo in terra rossa, dove Giggione era sempre pronto a urlare se ci si nascondeva tra le
spighe di grano, e lo scivolo della calce idrata, che ti faceva provare
l’ebrezza del proibito e della velocità quando si saltava da un muretto su
pezzi improvvisati di cartone scivolando giù per il pendio, giocandosi il
cartone e spesso anche il fondo dei pantaloni.
Ma il nostro vero regno era la piazza; e prima
che don Pasquale ci sorprendesse tutti col suo alzarsi la tonaca e mettersi a
giocare a pallone con noi sullo spiazzo della chiesa, accanto al monumento ai
caduti con la sua memorie di ruggine della guerra, incagliata su quattro resti
di bombe, il nostro gioco era il “giro di Francia”, gare interminabili fatte
sui gradini della chiesa spingendo dei tappi di birra o di gassosa, i testareglie, con tiri prolungati
facendoli con destrezza saltare da un gradino all’altro sino all’arrivo.
Il vero gioco, però, erano le interminabili e
accanite partite di calcio giocate sulle panchine di marmo dove qualcuno aveva
segnato, con matite o gesso trafugato a scuola, un vero campo di calcio, con
tanto di porta, centro ed area di rigore: si trattava di fare goal lanciando
con destrezza un testareglie nella
porta avversaria.
Inutile dire delle lunghe contestazioni quando
cadeva di lato ed era fallo laterale o qualcuno barava spostandosi in una
migliore posizione: si litigava per un goal non assegnato o una punizione non
data, si lanciavano i tappi sapientemente sagomati dal centro alla porta avversaria
o tentando talvolta tiri arditi da porta a porta che quasi immancabilmente
facevano volare i tappi giù dalla panchina; e alle rimesse in campo erano altre
litigate. Ed alla fine era quasi sempre la “Juve” a vincere.
Quel giorno fu speciale.
Io e diversi altri sconfitti assistevamo, spettatori
e controllori al tempo stesso, alla finale del “campionato del mondo” fra
Umberto Bebbè e Giampaolo Schizzett. Era una partita tanto
importante che c’erano tutti, quelli delle Crucela, quelli della Piazza e di Via
della libertà, persino quelli delle Pentime: vinceva chi arrivava primo a fare
6 goal, chissà perché… e si era su un importante 5 a 4.
Bebbè si preparava a tirare da un
provvidenziale fallo laterale nella metà campo di Schizzett: se segnava aveva vinto.
Si fece silenzio, Bebbè preparò il dito indice per il tiro, guardò bene la porta
avversaria e “Scusate, se vi interrompo, c’è tra voi ragazzi qualcuno che
vuole aiutarmi a portare a casa le valigie?” Era un carabiniere grande e
grosso, con la fronte sudaticcia sotto la visiera e tutto abbottonato nella
divisa. “Se qualcuno mi aiuta gli do 5 lire”.
5 lire… non bastavano neppure
per un gelato piccolo: facemmo finta di non sentire, tutti a testa bassa,
fintamente interessati alla partita. “Allora?
Non c’è nessuno?” ripeté sudato il carabiniere.
“Vengo io”
si sentì da un angolo.
Chissà perché ci girammo tutti, Bebbè si alzò dritto e quasi si mise a
ridere: aveva parlato Peppin Gliu mup,
un ragazzo delle pentime, tanto minuto e mingherlino che a spingerlo volava via
e che prendevamo sempre in giro dicendogli “te
si misse le pret ‘nsaccoccia?”
“Vengo io”
e si avvicinò al carabiniere.
Quello lo guardò e, soppesandolo, gli indicò una
valigia visibilmente più piccola di altre. “Va
bene, porta quella”.
Non so perché stavamo tutti a guardare, forse
per vedere come andava a finire, magari pronti all’immancabile sfottò.
Il milite si caricò una valigia per mano e una
borsa sotto le ascelle e disse: ”Andiamo”
Vedemmo Gliu
mup afferrare la maniglia della valigia con una mano, poi con tutt’e due,
stringendo i denti per sollevarla.
Provò una volta, due: la valigia sembrava
incollata per terra. Provò pure ad abbracciarla, ma niente, la valigia non si
muoveva. Qualcuno di noi ridacchiava sommessamente.
Il carabiniere si voltò, guardò Peppino che lo
guardava smarrito; poi guardò noi: “Va
bene, fa niente, le 5 lire te le do
lo stesso”. Mise la mano in tasca, gli consegnò la moneta e con un
movimento da ginnasta riuscì a mettersi la valigia sotto l’ascella libera. Lo
vedemmo allontanarsi sbuffando un po’ sotto il sole di quel luglio arroventato.
Molti occhi erano fissi su Peppino Gliu mup, lo vedevamo stringere in mano
quella moneta con un’espressione indescrivibile che allora non capimmo.
Qualcuno già si preparava a prenderlo in giro… “neppure un gelato da dieci ci usciva, al massimo una girella di
liquirizia”.
Finché il più feroce tra noi, o forse il più
disincantato, sbottò con un “nèh, e che
ce fai mo’ cu tutt ‘sti sold?”
Serio, serrando sulla mano quel tesoro, “glie port a mama, ca ce fa la spesa”
rispose Peppino Gliu mup. E andò via
verso le Pentime
Per la sorpresa, forse, o per un inaspettato
senso di colpa, a nessuno di noi interessò più la finale del campionato.
La partita la ripetemmo il giorno dopo.
Vinse Schizzett.
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